Corte di Lussemburgo – Il 25 aprile 2013 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha ritenuto che dalle parole del patron di una squadra di calcio, la Steaua Bucarest, trasparisse una prassi discriminatoria a danno dei calciatori dichiaratamente omosessuali. In effetti, il patron era stato molto esplicito quando nel corso di un’intervista aveva detto che escludeva l’ingaggio di qualsiasi giocatore apertamente gay, il quale “avrebbe creato tensioni all’interno della squadra e tra il pubblico”. La società calcistica ovviamente non prendeva le distanze da quanto detto.
La Corte, applicando la Direttiva 78/2000/CE che vieta ogni tipo di discriminazione o molestia in ambito lavorativo (e duqnue anche per quanto concerne l’assunzione lavorativa) a scapito di una serie di categorie protette tra cui le persone omosessuali, ha condannato la società calcistica. Infatti, la società avrebbe dovuto dar prova della non discriminatorietà della sua policy aziendale, smentendo con una serie di indizi concordanti le dichiarazioni del suo rappresentante.
Di seguito il testo della decisione: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62012CJ0081:IT:HTML
La decisione è interessante non tanto sotto il profilo giuridico, in quanto la normativa antidiscriminatoria in ambito lavorativo è ormai consolidata ed è chiara nel vietare ogni tipo di discriminazione e molestia anche dal punto di vista dell’orientamento sessuale, ma dal punto di vista simbolico-sociale. Il calcio resta uno di quei settori altamente maschilisti e omosociali, ovvero luoghi in cui si esplica un rapporto stretto ed esclusivo tra maschi. L’omosessualità pertanto terrorizza, in maniera irrazionale, i componenti del gruppo che temono di essere esclusi da quel rapporto. Sono fin troppo numerose le esternazioni scioccamente omofobe del calciatore o dell’allenatore di turno che nega con vigore che vi siano compagni omosessuali nella propria squadra. L’omosessualità rappresenta uno dei peggiori incubi della maschilità le cui caratteristiche tipiche rischiano di venir messe in dubbio. Ma il problema non è tanto il compagno di squadra gay, quanto il rischio della compromissione di una figura (quella del calciatore) che nell’immaginario sociale incarna ancora oggi uno degli esempi più calzanti di mascolinità. Incrinando quell’immagine si rischia di incrinare la maschilità stessa e di conseguenza il suo dominio sull’altro genere. Non sia mai. Meglio negare l’omosessualità e qualsiasi rapporto con essa. Peccato che ciò sia discriminatorio, oltre che irrazionalmente stupido.
Una bella lezione al maschilismo eterosessista imperante nel mondo calcistico. Eguaglianza 1, omofobia 0.